martedì, settembre 30, 2008

I padrini ricostituenti


Di Marco Travaglio
Ora d'arial'Unità, 30 settembre 2008Al Tappone ha voluto festeggiare il suo 72° compleanno nel solco della tradizione: raccontando balle. Ha fatto la solita lista di processi a suo carico, esagerando un po’ (“100 procedimenti, 900 magistrati che si sono occupati di me e del mio gruppo, 587 visite della polizia giudiziaria, 2500 udienze, 180 milioni di euro per le parcelle di avvocati e consulenti”) e senza rendersi conto che anche un decimo di quelle cifre in qualunque altro paese avrebbe catapultato il premier, se non in galera, almeno fuori da Palazzo Chigi. Ha ripetuto di essere “sempre stato assolto”, mentre ha avuto 6 prescrizioni perché lui stesso ha dimezzato i termini di prescrizione (controriforma del falso in bilancio e legge ex-Cirielli) e 2 assoluzioni perché “il fatto non costituisce più reato” in quanto lui stesso l’ha depenalizzato (sempre il falso in bilancio). Ha raccontato che la legge Alfano è “comune ad altri Paesi europei”, mentre non esiste democrazia al mondo che preveda l’immunità per il premier (Grecia, Portogallo, Francia e Israele la contemplano solo per il capo dello Stato). E s’è dimenticato di spiegare come mai, appena passato il Dolo Alfano, il suo avvocato on. Niccolò Ghedini annunciò che lui non l’avrebbe usato perchè voleva essere assolto, mentre ora pretende di applicarlo pure al coimputato Mills con la sospensione urbi et orbi del processo. Per fortuna esiste ancora un giudice a Milano, anzi parecchi: per esempio quelli del processo Mediaset (D’Avossa, Guadagnini e Lupo), che hanno accolto la questione di incostituzionalità dell’Alfano proposta dal pm Fabio De Pasquale, inoltrandola alla Corte costituzionale perché la porcata venga dichiarata illegittima. Cioè nulla. I testi di De Pasquale e del Tribunale, sono la più plateale smentita alle balle del Cainano, sulla scorta di quel documento eversivo che è la Costituzione. Secondo il pm, l’Alfano la viola in quattro punti. 1) Se l’art. 3 statuisce l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e dunque l’art.112 prevede l’azione penale obbligatoria, non si vede come si possano sospendere i processi a carico delle 4 alte cariche dello Stato senz’alcun vaglio sulla gravità dei reati commessi né alcun filtro sull’opportunità di una scelta tanto pesante. Già bocciando il lodo Maccanico-Schifani, la Consulta aveva contestato il carattere generale e automatico della norma, ma Alfano se n’è infischiato e l’ha riproposta tale e quale. 2) Per l’art. 136, le leggi dichiarate incostituzionali sono nulle, dunque non si possono ripresentare: nullo lo Schifani, nullo anche l’Alfano. 3) La figura delle 4 “alte cariche”, per la nostra Costituzione, non esiste. Esse hanno diverse fonti di legittimità:il presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune più i presidenti di Regione; i presidenti delle Camere sono eletti dalle Camere; il premier è nominato dal capo dello Stato. Accomunarli nello stesso calderone impunitario non ha alcun senso. 4) Per derogare al principio costituzionale di eguaglianza, occorre una legge costituzionale: infatti sono articoli o leggi costituzionali a stabilire trattamenti speciali per ministri, capo dello Stato, giudici costituzionali e parlamentari. L’Alfano è una legge ordinaria, dunque non vale. De Pasquale cita i lavori della Costituente, dove nel 1947 si discusse se immunizzare il Presidente della Repubblica (non certo quelli del Consiglio o delle due Camere) per reati comuni commessi fuori della sua funzione. L’on. Bettiol la propose, ma fu bocciato a larga maggioranza. Calosso obiettò: “Non vedo la necessità di costituire al Capo dello Stato una posizione speciale. Abbiamo una magistratura che è sovrana ed è uno dei poteri dello Stato… Persino presso certi popoli coloniali è possibile chiamare dinanzi al giudice il governatore”. Il grande Mortati rivelò: “Si è omessa intenzionalmente ogni regolamentazione della responsabilità ordinaria del Presidente. E’ una lacuna volontaria della Carta costituzionale”. Il presidente dell’Assemblea, Meuccio Ruini, tagliò corto: “Meglio una lacuna che un privilegio troppo grande per il Presidente, il quale è sempre cittadino fra i cittadini, anche se ricopre il più alto ufficio politico. Non ammetterei che per 7 anni il Presidente della Repubblica non rispondesse alla giustizia del suo Paese”. Altri tempi, altri padri costituenti. Poi arrivarono i padrini ricostituenti a spiegarci che la legge è uguale per tutti, tranne quattro

giovedì, luglio 17, 2008

"I Maiali sono più uguali degli altri"

di Marco Travaglio

Buongiorno a tutti. Questa è stata un'altra grande settimana per l'informazione italiana. Sono riusciti a raccontare che in Piazza Navona c'era poca gente, mentre Piazza Navona era piena l'8 luglio. Sono riusciti a raccontare che in Piazza Navona si è fatto un grosso favore a Berlusconi, poi Berlusconi ha smentito chiamando spazzatura chi ha manifestato contro di lui. Sono riusciti a raccontare che in Piazza Navona si è insultato e vilipeso il Capo dello Stato, il capo di uno Stato straniero cioè Papa Ratzinger, il povero Veltroni. Invece ci si è dimenticati di parlare dell'argomento che aveva dato il via alla manifestazione cioè le leggi canaglia e, in realtà come tutti sanno, si è parlato quasi esclusivamente di Berlusconi, del Caimano e delle sue leggi canaglia e se si è parlato di altri è perchè gli altri sono i suoi volontari o involontari alleati e aiutano meglio a spiegare la sua resistibile terza ascesa o meglio seconda resurrezione. Ci hanno raccontato che la gente scappava spaventata da Piazza Navona invece non se n'è andato nessuno. Che la gente non applaudiva, mentre in realtà applaudiva entusiasta. E alla fine ci hanno raccontato che per il cittadino italiano le priorità non sono queste, il cittadino italiano se ne infischia della giustizia, della legalità, della legge uguale per tutti. E' indifferente al lodo Alfano sull'immunità delle quattro cariche dello Stato o meglio a seguire Berlusconi, che definisce le manifestazioni "spazzatura", le alte discariche dello Stato. Poi, per fortuna, è uscito, molto nascosto sul Corriere della Sera, con un titoletto piccolo, un sondaggio di Renato Mannheimer che dimostra quanto segue: gli italiani, per il 29.4%, hanno condiviso la manifestazione. Badate che gli italiani rispondevano non su quello che è effettivamente accaduto perchè i telegiornali e i giornali non hanno raccontato quello che è effettivamente accaduto ma quello che volevano far credere che fosse accaduto. Bene, anche su quell'immagine completamente distorta di un'orgia di insulti, di attacchi, di violenze, di oltraggi alla democrazia e alle istituzioni, un terzo degli italiani si è detto favorevole. La cosa più stupefacente è che di questo terzo degli italiani che erano favorevoli alla manifestazione così com'è stata presentata ci sono un elettore del Partito Democratico su due - il 48% - e solo un terzo degli elettori del Partito Democratico ha seguito Veltroni nella sua dissociazione totale - tra l'altro non si capisce bene da cosa si dissocia perchè non si è mai associato, questi qua che prendono le distanze senza mai essere stati vicini fanno abbastanza ridere. Ma addirittura che quella piazza, quella manifestazione contro le leggi canaglia, contro l'immunità per le alte cariche, contro la legge bavaglio sulle intercettazioni e la libertà di stampa, contro il blocca processi, è piaciuta al 22% degli elettori leghisti - un elettore leghista su cinque - ed è piaciuta al 12% degli elettori del Popolo delle Libertà, cioè del partito di Berlusconi e di Fini. La piazza, a differenza dei leader del centrosinistra, è riuscita a parlare a una parte importante e a convincere una parte importante degli elettori del centrodestra. Questa è la realtà rispetto alle fantasie, agli incantesimi messi in moto dal sistema mediatico alla greppia dei partiti. Abbiamo, per fortuna, affermato che in questa democrazia malfamata, sempre più menomata, c'è qualcuno che vuole ancora esercitare fino in fondo non il suo diritto all'insulto - perchè nessun insulto è stato lanciato - ma il suo diritto alla critica anche forte come avviene nelle democrazie: più alta è la poltrona dove il politico si siede, più ampio è il diritto-dovere di critica che hanno i cittadini, gli intellettuali, gli scrittori, i comici, i falegnami, i salumieri o chiunque voglia esercitarlo. La libertà di parola non è stata conquistata al prezzo del sangue per applaudire il potere, perchè quel tipo di libertà di parola c'è anche nelle tirannidi. La libertà di parola è stata conquistata al prezzo del sangue per poter criticare il potere e la satira, con il suo linguaggio, può fare molto di più rispetto alla critica - magari spesso paludata - dei professori, degli intellettuali e dei giornalisti. La satira si è sempre potuta permettere ciò che gli altri non si potevano permettere, proprio perchè la satira è la satira. Come dice Daniele Luttazzi, la satira fa esattamente quel cazzo che le pare, l'unico limite è il codice penale. Insomma, abbiamo affermato il diritto di critica e lo abbiamo esercitato fino in fondo. E' il contrario del diritto all'applauso ed è la ragione per cui le democrazie si distinguono dalle dittature, dove è possibile parlare per applaudire il potere ma non per criticarlo. Nelle democrazie si possono fare entrambe le cose senza, in teoria, subire conseguenze. Che cosa è accaduto? Questo sondaggio non ha suscitato nessun dibattito, è stato immediatamente accantonato perchè gli elettori, quando si dimostrano maturi, debbono essere criminalizzati, occultati, bisogna fare in modo che la gente non sappia di essere un popolo matura, quando si comporta in maniera matura. Quindi quando arrivano buone notizie dai sondaggi, per i cittadini, vengono nascoste. La teoria è sempre la stessa: i partiti hanno sempre ragione, la gente se segue i partiti bene se no ha torto, non capisce, va educata. Va educata al culto dell'impunità, della legge diseguale per tutti, delle violazioni della Costituzione. Va abituata, poco alla volta. Va tenuta in uno stato di torpore per evitare che si svegli, che capisca, che reagisca e anche che si incazzi visto quello che sta succedendo. Da questo punto di vista è spettacolare quello che accade a meno di una settimana dalla manifestazione, cioè che i partiti sono tornati a fare esattamente quello che facevano due-tre anni fa prima dell'uscita del libro "La Casta", prima del V-Day, prima di tutta la polemica salita dal basso nei confronti di una classe dirigente ormai chiusa, autoreferenziale, che parla soltanto a se stessa e di se stessa...
Ne è dimostrazione questo spettacolare convegno indetto da Massimo D'Alema, questo Andreotti perdente, che ritorna continuamente, ciclicamente dalle sue ceneri ma non riesce mai a vincere un'elezione a differenza di Andreotti che, se non altro, le elezioni le sapeva vincere. Questo è un Andreotti, perchè è eterno, ma è un perdente perchè non ha mai vinto niente. Ora ha lanciato un'idea davvero da leccarsi le dita: partire con un bel dibattito sulla riforma elettorale alla tedesca! Un tema appassionante: chiunque frequenti bar, cinema, metropolitane, autobus sente un chiacchiericcio, la gente non parla d'altro! "A quando un sistema tedesco? Evvai, finalmente! Torna D'Alema e ci darà il sistema tedesco!" E tutti a parlare del sistema tedesco come se fosse il problema numero uno del Paese. Perchè? Perchè costoro ritengono che, dato il salvacondotto a Berlusconi con il lodo incostituzionale Alfano, lodo che ancora prima di essere firmato già ci hanno fatto sapere dal Quirinale che verrà firmato, anche se tutti scrivono e sanno che è incostituzionale, adesso la Casta si può rimettere comoda. Perchè? Per il passo successivo. Ne parlano già i giornali, c'è un altro genio del centrosinistra, tale Mantini... bisogna dare l'immunità anche agli altri. Perchè soltanto a Berlusconi e agli altri no? Tra l'altro oggi hanno arrestato Del Turco con mezza giunta della regione abruzzese. Anche questo è ciclico: già nel '93 fu arrestata in blocco e l'andarono a prendere con l'accalappiacani, li portarono tutti in galera per abuso d'ufficio e infatti si dovette depenalizzare l'abuso d'ufficio per tirarli fuori dal processo. Purtroppo uno restò dentro lo stesso. Era il presidente Salini, aveva anche una condanna per falso, non solo per abuso, e dato che con la condanna non poteva più fare il presidente della regione, nemmeno il consigliere regionale ma neanche il sindaco del suo paese, il presidente della sua provincia, nemmeno il consigliere circoscrizionale, si decise di promuoverlo in Parlamento. Voi sapete che con una bella condanna non si può più entrare negli enti locali ma nel Parlamento nazionale si. Quindi tornò trionfalmente in Parlamento da pregiudicato, perchè non gli era mai capitato da incensurato. Ce lo portò Forza Italia, poi Mastella lo vide e, invidioso - voi sapete che Mastella quando vede un pregiudicato in un altro partito gli viene subito voglia di abbracciarlo e di portarlo da se - riuscì a convincerlo e a portarlo nell'Udeur. Adesso hanno arrestato Del Turco, degno successore di questo Salini. Non sappiamo ovviamente come andrà il processo, si parla addirittura di una tangente di 6 milioni di euro - cosa volete che sia? Sarebbe il caso di bruciare le tappe. Tanto lo sappiamo che se dovessero, sventuratamente, condannarlo o dichiararlo colpevole ma salvo per prescrizione come spesso è accaduto - Andreotti, Berlusconi, D'Alema stesso sono tutti prescritti eccellenti - poi lo porterebbero in Parlamento per premiarlo. Allora, io direi: è inutile fare il processo. Invece di processarlo, rinviarlo a giudizio, fare le indagini, fare le udienze che costano un sacco di soldi, facciamo così: dichiariamolo immediatamente parlamentare di diritto. Evitiamo questa lunga fase di perdita di tempo che è il processo: quando uno viene arrestato per tangenti va di diritto al Parlamento nazionale. Potrebbe essere una riforma che snellisce le procedure giudiziarie, libera i magistrati da questi processi inutili che vengono fatti ai pubblici amministratori e ai politici, tanto lo sappiamo che se lo condannano lo promuovono al Parlamento. E' inutile aspettare: promuoviamolo subito! Diamolo già per condannato e promuoviamolo subito, visto che la sanzione accessoria in caso di condanna per tangenti di solito è un seggio sicuro alla Camera o al Senato. L'alternativa, naturalmente, è il ritorno all'immunità parlamentare come ai bei tempi di Tangentopoli, quando i parlamentari se ne stavano trincerati nel loro castello, alzavano tutti i ponti levatoi onde evitare che potessero entrare Carabinieri, Polizia o Guardia di Finanza: non sia mai che le forze dell'ordine o il magistrato violino il sacro suolo del Parlamento e quindi gettavano olio bollente sotto forma di dinieghi dell'autorizzazione a procedere ai magistrati che volevano perseguire i parlamentari per reati comuni. Questo sarebbe il replay di una scena già vista e già se ne sta parlando. A questo punto io dico: ma perchè limitare l'immunità parlamentare soltanto a mille uomini politici, quelli che hanno avuto la fortuna di autonominarsi nell'ultima legislatura? Perchè tener fuori, ad esempio, i presidenti delle regioni? Abbiamo Del Turco in carcere, Cuffaro che, poveretto, è dovuto scappare quando è stato condannato per favoreggiamento di alcuni mafiosi e quindi ha trovato rifugio al Senato, abbiamo Bassolino che è stato rinviato a giudizio per lo scandalo della monnezza, abbiamo un altro ex presidente di regione, Fitto, che poco prima che chiedessero il suo arresto ha trovato scampo alla Camera e adesso è anche ministro - perchè non ci facciamo mancare nulla -, abbiamo il presidente della Regione Lombardia Formigoni ancora imputato - hanno proprio chiesto la sua condanna pochi giorni fa per lo scandalo della fondazione Bussolera Branca. Altri magari ne verranno, non poniamo limiti alla Provvidenza: abbiamo indagato anche il Presidente della Regione Basilicata nelle indagini di De Magistris, abbiamo una Regione come la Calabria che ha 33 consiglieri su 50 sotto inchiesta, sotto processo o già condannati - sono il 66% - compreso il Presidente Loiero, anche lui pluriindagato. Allora facciamo così: facciamo un'immunità parlamentare extra-large che abbracci anche tutti gli amministratori locali. Si potrebbe arrivare addirittura al numero di 400.000: voi sapete che, secondo il libro "La Casta", coloro che vivono di politica in Italia fra incarichi elettivi, incarichi di giunta e consulenze, sono 400.000 le persone che vivono a spese nostre di politica. Potremmo stabilire che queste 400.000 persone possono fare o aver fatto tutto quello che vogliono ma il patentino di politici gli regala l'immunità, così almeno non si parlerà più di privilegi per quelle quattro alte cariche, tre delle quali tra l'altro ancora non hanno processi e quindi non si è capito per quale motivo vengano immunizzate. Così facendo, si farebbe qualcosa di un po' più equo perchè effettivamente è un po' poco ripristinare l'immunità soltanto per mille parlamentari lasciando tutti gli altri alla mercè dei magistrati. In fondo, come il Cavaliere ha bisogno di serenità, di tranquillità e anche di tempo per potersi fare i cazzi suoi senza che i magistrati lo disturbino con dei processi, è giusto che anche un sindaco, un presidente di circoscrizione, un consigliere provinciale abbiano la giusta serenità e il giusto tempo per farsi a loro volta i cazzi propri derubandoci. Rendiamoli immuni tutti, creiamo una categoria di immunodeficienti acquisiti o immunodelinquenti acquisti. Come diceva il grande Claudio Rinaldi su L'Espresso, l'autorizzazione a procedere, in Italia, diventa immediatamente autorizzazione a delinquere. Sappiamolo, che se vogliamo delinquere tranquillamente dobbiamo almeno arraffare un posticino in un consiglio comunale, altrimenti pazienza: ci rassegniamo a fare il ruolo dei derubati, che tra l'altro è il ruolo che esercita ciascuno di noi da decine e decine di anni a seconda della nostra data di nascita. Ecco, l'importante è sapere - e lo stanno già facendo - che quando ci verranno a raccontare di una volta, ai tempi belli, quando la Costituzione veniva rispettata c'era l'immunità parlamentare che metteva al riparo i parlamentari dalle indagini, mentono. Nel senso che l'immunità parlamentare come la raccontano loro non è mai esistita. L'immunità parlamentare intesa come scudo spaziale che protegge il parlamentare dalle indagini non è mai esistita nel Parlamento italiano. Esisteva un'altra cosa, molto diversa, molto più limitata che era l'autorizzazione a procedere. Cosa vuol dire? Che un magistrato, prima di poter indagare su un politico doveva chiedere al Parlamento se avesse nulla in contrario. Il Parlamento non poteva bloccare l'indagine: aveva il dovere di concedere l'autorizzazione a procedere, salvo un caso eccezionale, cioè che ci fossero le prove che quell'indagine a un parlamentare aveva finalità politiche. Cioè, non c'erano elementi di accusa - non avevano trovato soldi, non avevano trovato prove, non avevano testimoni, non avevano collaboratori, non avevano chiamate in correità - ma avevano semplicemente un teorema che faceva pensare a una persecuzione. Cioè non c'erano i soldi a Mills, non c'era la lettera di Mills che dice "Mr. B. mi ha dato i soldi", non c'erano le telefonate di Berlusconi a Saccà che mercanteggia ragazze in cambio di soldi o di senatori che fanno il ribaltone, non c'erano telefonate di politici che scalavano banche. Ecco, non c'era niente se non, appunto, un'invenzione di un magistrato probabilmente politicizzato che voleva colpire questo parlamentare per finalità politiche. Su chi era ritagliata questa norma? Era ritagliata su eventuali esponenti dell'opposizione che, magari, avessero fatto qualche gesto un po' estremo: una denuncia pubblica un po' esagerata, un blocco stradale, un'occupazione delle terre, un picchettaggio, uno sciopero, una manifestazione in ferrovia per bloccare i treni a fini dimostrativi, un'obiezione di coscienza in piazza come quelle di Pannella che distribuiva gli spinelli contro il proibizionismo. Cose di questo genere: indagini su reati politici magari fatti da magistrati che, si temeva nel '46-'48 da parte dei Padri Costituenti, fossero talmente omologati, asserviti alla cultura, al ceto sociale del potere, del governo da poter fare un servizio al governo per liberarlo da qualche oppositore scomodo. Questa era la "ratio" di questa norma. Tant'è che finchè il Parlamento è stata una cosa seria questa norma è stata usata con estrema prudenza. Poi si cominciò a svaccare: negli anni Settanta e Ottanta, quando partirono seriamente le indagini sulla corruzione, sui rapporti mafia-politica, quell'autorizzazione a procedere cominciò a essere negata noi in quei casi eccezionale, quando la Costituzione prevedeva che potesse essere negata, ma quasi automaticamente, quasi sempre per coprire indagini che di persecutorio e politico non avevano niente ma in compenso avevano i soldi, i rapporti con la mafia, tutte le accuse, tutte le prove e i riscontri. Si diceva che c'era comunque un fumus persecutionis e si negava l'autorizzazione a procedere. Lo scandalo era tale che la gente non ne poteva più, tant'è che nel '92 questi signori erano asserragliati nel Palazzo non solo per proteggersi dai giudici ma anche per proteggersi dai loro stessi elettori che, avendo scoperto come usavano il potere, volevano fargli la pelle. Qualcuno ricorderà degli episodi molto spiacevoli come lanci di monetine, politici inseguiti per le strade al grido di "ladro! ladro!". Fu l'ultimo momento felice di una democrazia dove i cittadini ancora avevano a cuore le sorti del proprio futuro e andavano a dire quello che pensavano direttamente ai loro rappresentanti. A quel punto, nel tentativo di recuperare un minimo di credibilità, il Parlamento si spogliò di quell'istituto che era diventato abusivo. Un po' come adesso che votano per il loro vicino - fanno i pianisti - e fanno una legge per impedirsi di votare per il loro vicino. Si rendevano conto che la tentazione era troppo forte: o facevano una legge per tagliarsi le mani oppure quelle mani avrebbero continuato ad usarle per rendersi immuni. Quindi, con legge Costituzionale, fu abrogata l'autorizzazione a procedere per le indagini. Rimase, naturalmente, per l'arresto - non si può arrestare nessun parlamentare senza il consenso del Parlamento -: il Parlamento non da mai il consenso. Proprio l'altro giorno il Parlamento ha negato l'autorizzazione all'arresto per il senatore del Popolo delle Libertà Nicola De Girolamo, eletto nella circoscrizione Europa candidandosi all'estero e dichiarando di essere residente in Belgio, mentre non era per niente vero. Cioè, si è travestito da straniero mentre risiedeva assolutamente non in Belgio. Stiamo parlando di una truffa agli elettori, se fosse dimostrata, ma essendo lui stato eletto non può essere arrestato. Quindi, per l'arresto la negano sempre perchè ci vuole ancora l'autorizzazione a procedere. Per le intercettazioni la negano sempre perchè ci vuole ancora. D'altra parte, a nessun magistrato verrebbe in mente di avvertire un parlamentare dicendo "guarda, ti stiamo per intercettare, tant'è che chiediamo a te e ai tuoi amici o compari il permesso di intercettarti". O si fa a sorpresa o non si fa. Idem per quanto riguarda le perquisizioni. Rimase, quindi, l'autorizzazione salvo che per fare le indagini. Poi rimase un ambito di insindacabilità quando parli nell'ambito delle tue funzioni o quando voti nell'esercizio delle tue funzioni. Non ti posso processare perchè hai votato in un modo anzichè in un altro, in Parlamento, e non ti posso processare nemmeno quando hai parlato da parlamentare, facendo una denuncia, un esposto, un'interrogazione parlamentare. Anche di questo si è stra-abusato facendo rientrare nelle esternazione nell'esercizio delle funzioni tutta una serie di insulti - pensate a Sgarbi mentre insulta mezzo mondo: finchè era parlamentare si piccava di essere immune dalle conseguenze degli insulti. Lui insulta un cittadino e quello non può avere giustizia. Il cittadino critica lui e lui lo querela, perchè "io so' io e voi non siete un cazzo", come diceva giustamente il Marchese del Grillo citando Gioacchino Belli. Ecco, questa immunità c'è in quasi tutti i Paesi solo che per le parole dette e per i voti espressi, mentre l'immunità che vogliono ripristinare è pessima, nel senso che mette al riparo, preventivamente, il parlamentare da indagini che possono riguardare reati comuni, reati legati alla funzione, reati commessi durante l'esercizio del mandato parlamentare ma anche prima. E' quindi l'autorizzazione a delinquere, l'incentivo a delinquere e poi a buttarsi in Parlamento. Oppure, l'incentivo a quelli che già stanno in Parlamento a delinquere impunemente perchè tanto poi si nega l'autorizzazione a procedere. Il fatto che la vogliano ripristinare e che abbiano dichiarato di volerla ripristinare perchè così non sarebbe nemmeno necessario il lodo Alfano, in quanto Berlusconi verrebbe coperto dall'immunità anche retroattivamente per i processi già cominciati prima - che si bloccherebbero insieme a quelli di Dell'Utri, di Cuffaro, di tutti gli esponenti di centrodestra e centrosinistra che abbiamo raccontato nel libro "Se li conosci li eviti" - vuol dire che non vogliono ripristinare quello che i Padri Costituenti avevano istituito, cioè quella possibilità eccezionale di bloccare le indagini persecutorie per fini politici. Vogliono ripristinarne la versione che loro avevano trasformato in un abuso, quella che automaticamente bloccava i processi. Perchè evidente che mai, nemmeno col vecchio articolo 68 della Costituzione abolito nel '93, si sarebbe potuto pensare di bloccare il processo Mills o il processo Saccà. Per quale motivo? Perchè il processo Saccà è pieno di prove e le hanno fornite proprio Berlusconi e Saccà con le loro telefonate, non c'è ombra di politica in tutto quello perchè sono loro che parlano! Dove sta il fumus persecutionis? Sono loro che si sono incastrati da soli con le loro parole. Allo stesso modo mai il processo Mills potrebbe essere bloccato in base all'articolo 68 reintegrato com'era prima del '93 perchè nel processo Mills c'è la confessione di Mills al suo commercialista nella quale dice appunto "Mr. B. mi ha fatto avere 600.000$ in cambio della mia testimonianza falsa o reticente". Quella che loro vogliono ripristinare non è la norma dei nostri Padri Costituenti, che oggi non ha più nessun senso perchè per fortuna non abbiamo più una magistratura asservita al governo che potrebbe colpire uomini dell'opposizione, ma abbiamo l'esatto contrario. Un governo che vorrebbe bloccare le indagini della magistratura contro membri del governo, non contro membri dell'opposizione. Una magistratura accusata di essere troppo indipendente dal governo e dalle maggioranze del momento. Prepariamoci, naturalmente, perchè io credo che ci proveranno e probabilmente ci riusciranno: c'è un ampio consenso trasversale, credo che finora soltanto Di Pietro abbia detto che dell'immunità non se ne parla neanche mentre nel centrosinistra ci sono vaste aree di permeabilità a questo richiamo della foresta. Tutti immuni e non se ne parla più. Tant'è che il PD vuole allearsi con l'UDC che viene sempre presentato come il partito dell'avvenente Casini e ci si dimentica che l'UDC non esisterebbe se non avesse Cuffaro e i suoi amici degli amici in Sicilia e se non ci fosse quell'altra praeclara figura di moralità pubblica che è Lorenzo Cesa, leader dell'UDC molto attivo - come voi sapete - anche in Calabria, vedi indagini di De Magistris che adesso stanno smontando i suoi cosiddetti colleghi. Quindi, parlano di legge elettorale tedesca, parlano di dialogo con l'UDC, preparano un'immunità urbi et orbi, plenaria in secula seculorum. Come se il libro "La Casta" non fosse uscito, come se i V-Day non ci fossero mai stati per la classe politica. Per fortuna, come abbiamo detto, per i cittadini "La Casta" è un libro importante, il V-Day è una cosa importante, manifestazioni come quelle di Piazza Navona sono applaudite da un terzo degli italiani, dalla metà degli elettori del PD e addirittura da un quinto degli elettori della Lega e da un decimo di quelli del centrodestra. Insomma, gli elettori sono qualche chilometro più avanti della nostra classe dirigente, basta semplicemente non farli sentire soli e non farli sentire stupidi. Fargli capire che pensare così e sentire così è cosa buona e non cosa di cui vergognarsi. Come al solito, passate parola e prepariamoci a un autunno di referendum. Grazie.

lunedì, aprile 07, 2008

Caso Europa7

di Marco TravaglioMicromega, 02/2008
Questa è la storia di un’emittente nazionale che dovrebbe trasmettere sui nostri teleschermi insieme alle reti Rai, a quelle Mediaset (solo due, però) e a La7, dal 1999, quando ottenne dallo Stato la concessione. Ma non ha mai potuto andare in onda nemmeno per un minuto, perché le sue frequenze sono occupate da Rete4, che la concessione l’ha perduta 9 anni fa, ma continua a occuparle “in proroga” grazie ai governi di centrosinistra e di centrodestra. Questa è la storia di un imprenditore, Francesco Di Stefano, che ha il solo torto di aver creduto nelle leggi dello Stato e della concorrenza. Dunque, è stato punito.

Maccanico Riparazioni Spa

Tutto comincia nel 1996, quando arriva il governo Prodi. Il ministro delle Comunicazioni Antonio Maccanico presenta due disegni di legge per la riforma delle tv: il 1021 disegna i contorni della nuova Autorità per le Comunicazioni, che dev’essere varata subito per privatizzare la Stet; il 1138 riordina il sistema radiotelevisivo, con tanto di norme antitrust da applicare entro il 28 agosto 1996. Da quel giorno, come ha stabilito nel 1994 la Corte costituzionale, Mediaset dovrà cedere una rete o mandarla sul satellite. Intanto però, da un accordo fra D’Alema e Berlusconi, nasce la Bicamerale per riformare la Costituzione: merce di scambio, il futuro delle tv (e i processi penali) del Cavaliere. Durante le ferie Maccanico annuncia un decreto salva-Rete4 per evitarle il passaggio su satellite dal 28 agosto: “Ricorrono tutti i motivi per un intervento d’urgenza, in modo da impedire che la normativa sulle tv resti scoperta dopo il 28 agosto ed evitare così il rischio che qualche pretore possa oscurare di colpo le antenne private”. Ma il vicepremier Walter Veltroni non è d’accordo: “Per le tv oggi non ravviso requisiti di urgenza. Se, scaduti i termini entro i quali la ripartizione delle frequenze avrebbe dovuto essere modificata come chiesto dalla Consulta, qualche pretore dovesse intervenire oscurando un’emittente, vedremo il da farsi. Non abbiamo certo interesse a vedere spenta una tv Fininvest”. Entra in azione Gianni Letta, ambasciatore di Mediaset, che fa la spola tra i palazzi del potere e offre l’appoggio del Polo alla vendita della Stet, osteggiata da Bertinotti, in cambio del salvataggio di Rete4. Veltroni rincula, ed ecco il decreto salva-Rete4: il governo regala una proroga di 5 mesi a tutte e tre le reti Mediaset, in attesa della «grande riforma» Maccanico. Che intanto approda alla commissione Lavori pubblici e Telecomunicazioni del Senato, presieduta da Claudio Petruccioli. Lì il centrodestra fa ostruzionismo all’arma bianca: migliaia di emendamenti, continue richieste di rinvio. Si arriva a fine anno con un nulla di fatto. La proroga di agosto sta per scadere. Rete4 andrà finalmente sul satellite? Nemmeno per sogno. Maccanico, alla chetichella, sigla un altro patto col Polo. E’ il 17 dicembre 1996: davanti al capogruppo forzista alla Camera Beppe Pisanu, il ministro firma venti righe su carta intestata del ministero, che Curzio Maltese chiama il «Trattato di Versailles delle tv». Leggiamo: “Il ministro Maccanico per il governo e l’on. Pisanu per il Polo, nel concedere l’emendamento al disegno di legge di conversione del decreto di legge 23 ottobre 1996, n. 545 [la proroga per le tre reti Mediaset, ndr], si sono impegnati a favorire la votazione finale di tutti i decreti legge all’esame del Parlamento”. Il centrodestra pone fine all’ostruzionismo, mentre Polo e Ulivo “s’impegnano altresì” a mandare avanti dopo Natale: “1) i ddl collegati alla finaziaria ’97 [...], l’istituzione della Bicamerale e la proposta di legge elettorale Rebuffa [niente più quota proporzionale, ndr]; 2) l’esame della riforma delle telecomunicazioni e del sistema televisivo [...]; 3) l’esame dei provvedimenti sulla giustizia”. Tutto in un unico calderone. Nel dicembre ’96 l’Ulivo regala a Mediaset l’ennesima proroga. E nel febbraio ’97, con i voti di Forza Italia, D’Alema viene eletto presidente della Bicamerale. Seguono due anni di inciucio sfrenato: pare brutto approvare una seria legge sulle tv. Infatti dei due ddl Maccanico approdati all’aula del Senato viene approvato solo quello gradito al Polo: il 1021, che istituisce l’Authority e contiene un finto principio antitrust. La nuova legge n. 249 impone, sì, che nessuno possa raccogliere più del 30% delle risorse del mercato televisivo, cioè della pubblicità, e che gli operatori non possano detenere più del 20% delle frequenze nazionali. Ma a far rispettare quei tetti deve pensarci la nuova Authority, che potrà entrare in azione solo quando esisterà in Italia «un effettivo e congruo sviluppo dell’utenza dei programmi televisivi via satellite o via cavo». Solo allora Rete4 andrà su satellite e Rai3 trasmetterà senza spot. Cioè mai. Che vuol dire «congruo sviluppo» del satellite? Nessuno lo sa. Ecco perché anche il partito-azienda dice sì. E il resto della «grande riforma»? Il ddl 1138 torna mestamente alla commissione Lavori Pubblici, e lì resterà impantanato nelle sabbie mobili per tre anni, sotto lo sguardo sonnacchioso del presidente Petruccioli e il fuoco concentrico degli emendamenti berlusconiani.

Non disturbare il manovratore

La neonata Autorità per le Comunicazioni - Agcom, infarcita di uomini di partito (il presidente è l’ex socialista Enzo Cheli e tra i commissari svettano un uomo vicinissimo a Mediaset, come il superconsulente Antonio Pilati e un vecchio amico del Cavaliere come Alfredo Meocci) - se la prende comoda e si mette all’opera solo nel 1998. Ma poco dopo Rifondazione rovescia il governo Prodi, rimpiazzato da D’Alema che si porta dietro una pattuglia di fuorusciti dal Polo al seguito di Cossiga, Mastella e Buttiglione. È la morte dell’Ulivo. L’Agcom presenta il nuovo piano per le frequenze e bandisce la gara per rilasciare le 8 concessioni televisive nazionali disponibili. Berlusconi conta di consacrare per sempre lo status quo raggiunto sin qui a colpi di fatti compiuti. Ma accade l’imponderabile. Oltre ai soliti gruppi Rai, Mediaset e Telemontecarlo che si spartiscono l’etere da una vita, presenta domanda di concessione anche un outsider: Francesco Di Stefano. Chi è questo sfrontato che osa rompere le uova nel paniere ai monopolisti dell’antenna e ai loro protettori politici? Un imprenditore abruzzese allora quarantaseienne, che opera nel settore dagli anni 70, quando rilevò a Roma la Tvr Voxon. Poi, passo dopo passo, si è allargato. Ha creato un network di tv locali che per 8 ore al giorno mandano in onda gli stessi programmi sotto il simbolo di Europa7. Quando l’Agcom pubblica sulla Gazzetta Ufficiale il regolamento della gara, Di Stefano versa il capitale richiesto di 12 miliardi di lire. L’8 marzo 1999 il ministero delle Poste fissa i criteri per il rilascio delle concessioni:1) qualità dei programmi (totale massimo: 200 punti); 2) piano d’impresa, investimenti e sviluppo della rete (260 punti); 3) occupazione (350); 4) esperienze maturate nel settore radiotelevisivo e in altri settori (190 punti). Di Stefano chiede due concessioni: una per Europa7 e una 7 Plus. La commissione di esperti del ministero esamina tutta la documentazione e approva una graduatoria ufficiale. Ai primi tre posti risultano Canale5 (774 punti), Italia1 (604 punti) e Rete4 (565 punti). Seguono, nell’ordine, Telepiù bianco, Tmc, Tmc2 e Telepiù nero. Europa7 si piazza all’ottavo con 347 punti, ma sale al sesto perché Rete4 e Telepiù nero dovranno traslocare su satellite dopo il famoso “congruo sviluppo” delle parabole. La 7 Plus è invece esclusa in base a un cavillo (Di Stefano farà ricorso al Consiglio di Stato e otterrà ragione). Avere subito diritto a una rete nazionale è comunque un bel colpo: soprattutto perché Europa7 s’è piazzata al primo posto per qualità dei programmi. Il 28 luglio 1999 il governo D’Alema gli assegna ufficialmente per decreto una concessione e, come stabilisce la legge, gli ricorda che deve cominciare a trasmettere entro sei mesi, cioè entro il 31 gennaio 2000, pena la decadenza.Di Stefano festeggia e mette in piedi un mega-centro produzione di 22 mila metri quadrati sulla Tiburtina, con 8 studi di registrazione, uffici, alte tecnologie, library di 3 mila ore di programmi e tutto quanto occorre per una rete nazionale con 700 dipendenti. Non sa che sta iniziando per lui un calvario infinito. Diversamente che per le altre reti, già operative da anni, il decreto ministeriale non indica le frequenze su cui Europa7 potrà trasmettere: parla genericamente di «un raggruppamento di tre canali di cui uno del gruppo A, uno del gruppo B e uno del gruppo C». Ma purtroppo le frequenze sono occupate da Rete4 e Telepiù nero, cioè da Berlusconi, che non ha alcuna intenzione di liberarle. Di Stefano si rivolge al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte costituzionale.

Berlusconi salva Berlusconi

Nel novembre 2002 torna a farsi viva la Consulta: basta proroghe a Rete4, che dovrà emigrare su satellite entro il 1° gennaio 2004. Così le frequenze liberate andranno finalmente a Europa7. Ma intanto Berlusconi è tornato al governo e, in vista della scadenza, incarica l’apposito Gasparri di provvedere. Il ministro delle Comunicazioni prepara, con l’aiuto di consulenti Mediaset, la legge Gasparri: ora il tetto del 20% va calcolato sui programmi digitali e le reti analogiche, cioè sull’infinito. Dunque Rete4 non eccede la nuova soglia antitrust e può restare dov’è. Il 16 dicembre 2003, però, Ciampi respinge la legge al mittente. Ma a fine anno Berlusconi firma il decreto salva-Rete4 che concede altri sei mesi di proroga, in attesa della Gasparri-2. Che viene approvata nell’aprile 2004: la scusa per mantenere lo status quo in barba alla Consulta è sempre il digitale terrestre, annunciato per il 2006, che dovrebbe portare nelle case degli italiani centinaia di nuovi canali, facendo scomparire i tre di Berlusconi. A scanso di equivoci, gli articoli 20 e 23 condonano di fatto Rete4, riconoscendo il diritto di trasmettere a «soggetti privi di titolo» che occupano frequenze in virtù di provvedimenti temporanei, ma non a Europa7, titolare di una legittima concessione. Chi ha perso la gara (Rete4) vince, chi ha vinto la gara (Europa7) perde.Di Stefano non demorde. Respinge gl’inviti a “mettersi d’accordo” o a “lasciar perdere” e seguita a combattere per i suoi diritti. Il 12 luglio 2004,assistito dagli avvocati Grandinetti, Mastroianni e Pace, si rivolge al Tar del Lazio per ottenere dallo Stato le frequenze e i 748 milioni di euro di danni subiti in cinque anni di forzata inattività. Nel luglio 2005 il Tar respinge il suo ricorso, ma lui impugna tutto al Consiglio di Stato. Che a sua volta interpella la Corte di giustizia europea di Lussemburgo perchè risponda a 10 quesiti sulla compatibilità delle norme italiane con la normativa comunitaria.Nel maggio 2006 il centrosinistra torna al governo. Il 19 giugno la Commissione europea invia al nostro governo una lettera di «messa in mora» del duopolio Rai-Mediaset, giudicando intollerabile che in Italia possa accedere al digitale terrestre solo chi già possiede emittenti nell’analogico: cioè Rai e Mediaset, che escludono la concorrenza di nuovi operatori. Se la Gasparri non sarà smantellata entro il 2009, l’Italia dovrà pagare una multa fino a 400 mila euro al giorno con effetto retroattivo dal 2006. Il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni presenta due ddl in materia tv: il primo riguarda gli assetti del sistema radiotelevisivo, con norme antitrust, ma solo sulla pubblicità (Mediaset, che controlla il 65%, dovrà scendere al 45); il secondo riguarda ruolo, proprietà e criteri di nomina della Rai. Quanto al numero di reti, nulla cambia: in barba alla Consulta, Rete4 otterrà l’ennesima proroga. La scusa, come già nella Gasparri, è il sempre imminente arrivo del digitale terrestre, fissato ora per il 2012 (6 anni dopo la data annunciata da Gasparri). Allora – stabilisce Gentiloni – tutte le reti nazionali spegneranno il segnale analogico e passeranno al digitale. Prima però, entro il 2009, Rai e Mediaset dovranno anticipare il trasloco di una rete al digitale. Cambia qualcosa, nell’ottica del principio fissato dalla Consulta? Assolutamente nulla. Mediaset si terrà le sue tre reti generaliste esattamente come la Rai, in attesa di completare il passaggio al digitale nel 2012. E dopo? Tutto come prima: resta il tetto del 20% già fissato da Gasparri sul mercato complessivo della tv. Quanto ai diritti di Europa7, Gentiloni nulla dice sull’assegnazione delle frequenze liberate nel 2009. In ogni caso i suoi due ddl non vedranno mai la luce.

Tsunami dal Lussemburgo

Intanto, a Lussemburgo, la causa procede. Il 30 novembre 2006 la Corte europea si riunisce per l’ultima udienza pubblica. Ci si attenderebbe che, cambiato il governo, l’Italia cambiasse posizione, riconoscendo finalmente i diritti acquisiti da Europa7. Invece, a sorpresa, l’avvocato dello Stato Paolo Gentili, in rappresentanza del governo Prodi, mantiene la linea del governo Berlusconi: difende la legge Gasparri. Gentiloni aveva scritto al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta per sollecitarlo a modificare le regole d’ingaggio all’Avvocatura dello Stato. Ma invano. L’Unione difende in Europa una legge che ha promesso di smantellare in Italia. Il 21 febbraio 2007, all’indomani dello sbarco in Parlamento della Gentiloni, Prodi cade sulla politica estera. Poi riottiene la fiducia, ma in base a un programma ristretto che non fa più alcun cenno alle tv. Nel settembre 2007 l’avvocato generale della Corte europea di giustizia, il portoghese Poiares Maduro, chiede ai giudici di dare ragione a Di Stefano e torto al governo italiano: in Italia “emittenti prive della concessione sono autorizzate a proseguire l’attività, sebbene eccedano la soglia antitrust”, mentre chi ha avuto la concessione è al palo dal 1999. Ma “le aspettative degli operatori esistenti… non giustificano il proseguimento di una situazione nella quale i diritti dei nuovi competitori svaniscono”. Il 31 gennaio 2008 la Corte emette finalmente la sentenza: le norme italiane che consentono a Rete4 di trasmettere al posto di Europa7 sono “contrarie al diritto comunitario”, dunque illegali: la Maccanico, il salva-Rete4, la Gasparri, ma anche la Gentiloni. Tutte infatti concedono un infinito “regime transitorio” a Rete4, che invece va spenta subito, senza indugi, dando a Europa7 ciò che è di Europa7: “L’applicazione in successione dei regimi transitori istituiti dalla legge n. 249/1997 (Maccanico, ndr) e dal decreto legge n. 352/2003 (salva-Rete4, ndr) a favore delle reti esistenti ha avuto l’effetto di impedire agli operatori sprovvisti di frequenze di trasmissione l’accesso al mercato”. Idem per la Gasparri che, “prevedendo un’autorizzazione generale a operare sul mercato dei servizi radiotelevisivi a favore delle sole reti esistenti, ha consolidato l’effetto restrittivo constatato al punto precedente” e ha “prolungato il regime transitorio istituito dalla legge n. 249/1997”. La Gasparri e la Gentiloni concedono proroghe in attesa dell’imminente (?) e magico digitale, ma con i giudici europei non attacca: “Le restrizioni non possono essere giustificate dalla necessità di garantire una rapida evoluzione verso la trasmissione televisiva in tecnica digitale. Infatti, anche qualora un obiettivo siffatto possa rappresentare un obiettivo di interesse generale tale da giustificare restrizioni del genere, è giocoforza constatare che la normativa italiana non si limita ad attribuire agli operatori esistenti un diritto prioritario ad ottenere le frequenze, ma riserva loro tale diritto in esclusiva, senza limiti di tempo alla situazione di privilegio così creata e senza prevedere un obbligo di restituzione delle frequenze eccedenti dopo la transizione alla trasmissione in tecnica digitale”. Conclusione: norme, direttive e regolamenti comunitari “ostano, in materia di trasmissione televisiva, ad una normativa nazionale la cui applicazione conduca a che un operatore titolare di una concessione si trovi nell’impossibilità di trasmettere in mancanza di frequenze assegnate sulla base di criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati”. Uno tsunami che spazza via vent’anni di tele-inciuci.

Veltrusconi, l’ultimo inciucio

La sentenza è immediatamente esecutiva e il governo italiano - pur dimissionario - dovrebbe applicarla ipso facto, riprendendosi le frequenze occupate da Rete4. Ma il ministro Gentiloni ci dorme sopra un mese. Poi, a fine febbraio, chiede al Consiglio di Stato un parere sul da farsi: eseguire subito la sentenza o attendere la conclusione della causa di Europa7? Mentre scriviamo, il Consiglio di Stato sta stilando la risposta. Intanto ha fissato per il 6 maggio l’udienza per recepire a sua volta la sentenza europea: cioè per quantificare il risarcimento dovuto a Europa7 (che chiede oltre un miliardo di euro) ed eventualmente concederle le frequenze che le spettano (in caso contrario, il risarcimento si moltiplicherebbe). La bomba a orologeria ha iniziato a ticchettare (in parallelo col conto alla rovescia per la supermulta annunciata dall’Ue se tra un anno la Gasparri sarà ancora in piedi). Ma la classe politica fa finta di nulla. Solo Antonio Di Pietro e Beppe Giulietti chiedono di dare “immediata esecuzione alla sentenza europea su Europa7 e spostare Rete4 sul satellite”. Subissati di critiche, attacchi e improperi. Non solo dal partito Mediaset. Ma anche dal Pd. Formidabile il commento di Marco Follini, l’ex vicepremier di Berlusconi ed ex segretario dell’Udc, che ha votato tutte le leggi vergogna a cominciare dalla Gasparri e dunque è stato promosso responsabile Informazione del Pd: “La posizione del Pd è contenuta nei due ddl Gentiloni giacenti in Parlamento”. Furbetto e inconcludente Veltroni: “La nostra proposta è la stessa del ministro Gentiloni e non è punitiva. Che ci sia bisogno di più pluralismo è del tutto vero, per fortuna le tecnologie ci consentiranno di farlo”. Ma, come abbiamo visto, la fu Gentiloni – con l’ennesima “fase transitoria” per Rete4 e l’eterno annuncio del meraviglioso mondo digitale - è superata dalla sentenza di Lussemburgo. Ma Veltroni quella sentenza la ignora. Tant’è che nel programma del Pd s’è limitato a scrivere: “rispetto delle direttive europee e delle sentenze della Corte costituzionale”. E non - come invece chiedeva Di Pietro - della sentenza della Corte di giustizia. Chi teme l’inciucio prossimo venturo si tranquillizzi: Veltrusconi è già tra noi.

mercoledì, febbraio 06, 2008

A proposito di Annozero...

di Marco Travaglio
Pubblichiamo la lettera di Filippo di Robilant (portavoce di Emma Bonino) al direttore de L'Unità sulla puntata di AnnoZero di giovedì scorso, con la risposta di Marco Travaglio.

Caro Direttore,
non si capisce perché Marco Travaglio si assuma l’onere di raccontarci lo svolgimento dell’ultima puntata di AnnoZero come se i telespettatori non avessero occhi per vedere né orecchie per sentire (“Totò e le cozze”, 3 febbraio). Scrive Travaglio: «Poi parlano i tre politici ospiti, tutti favorevoli a Cuffaro: sia Vietti e Alemanno del centrodestra, sia Emma Bonino dell’Unione, che lamenta l’assenza di Cuffaro come se fosse colpa di Santoro. Vietti e Bonino s’incaricano d’interrompere e coprire con la loro voce chiunque dica cose sgradite a Cuffaro». Evidentemente Travaglio era così preso da se stesso da non prestare minimamente attenzione alla posizione espressa dal ministro. Emma Bonino ha effettivamente lamentato l’assenza di Cuffaro visto che si metteva mano alle carte processuali, segnalando en passant il fatto allarmante che in televisione ci siano sempre meno contraddittori e sempre più monologhi. Ma ha anche espresso in modo estremamente chiaro il suo giudizio sul piano della responsabilità politica - l’unico piano che le competesse in quanto esponente politico e di governo ­ ovvero che il comportamento di Cuffaro fosse riprovevole e, pertanto, doverosamente oggetto di un procedimento governativo di (accertamento della) sospensione. Fine della trasmissione. Nessun favore a Cuffaro, né alla sua parte politica che, come ha sottolineato Emma Bonino, si assume l’onere di sostenerlo e, eventualmente, di candidarlo.Non a caso ha citato l’esempio della Francia, dove due politici del calibro di Alain Juppé e Dominique Strauss-Kahn si dimisero dai loro incarichi a seguito di un procedimento giudiziario e, una volta prosciolti, tornarono sulla scena politica. Non si capisce quindi perché Travaglio debba ricamarci sopra fino a suggerire, sfiorando il ridicolo, che la Bonino stia addirittura dall’altra parte della barricata.

Filippo di Robilant Portavoce del ministro del Commercio internazionale e per le politiche europee


Risposta di Marco Travaglio

Mi assumo l’onere di raccontare quel che voglio perché, fino a prova contraria, sono libero di fare come mi pare senza il permesso del governo. Nella fattispecie, ho raccontato quel che è accaduto nell’ultimo AnnoZero perché non tutti l’hanno visto, e non tutti quelli che l’hanno visto sanno che cos’era accaduto prima: e cioè che, diversamente da quel che ha detto il ministro Bonino in trasmissione e ripete ora il suo portavoce, non c’è stato alcun “monologo”. Salvatore Cuffaro era stato regolarmente invitato in studio, aveva rifiutato di partecipare, poi aveva diffidato Santoro dal trasmettere il documentario La mafia è bianca, poi alla vigilia della messa in onda aveva cambiato di nuovo idea, chiedendo in extremis di spostare la trasmissione ad altra data (cosa ormai impossibile, essendo la vigilia) perché trattenuto da un “impegno inderogabile”: una cena a base di cozze e sarde al beccafico con gli ex compagni di liceo. Il ministro Bonino ha potuto esprimere più volte il suo pensiero senza essere interrotta e disturbata, mentre il sottoscritto è stato continuamente interrotto dall’on. Vietti e dal ministro Bonino, che ha addirittura minacciato in diretta di lasciare lo studio di AnnoZero se avessi continuato a raccontare i fatti oggetto del processo che ha portato alla condanna di Cuffaro. Sia detto una volta per tutte: io metto mano a tutte le carte processuali che voglio senza aver bisogno del permesso del ministro Bonino o di altri politici. Perché faccio il cronista giudiziario e, diversamente dai politici che spesso parlano di cose che non conoscono, sono abituato a documentarmi prima di parlare. Ogni giorno la stampa di tutto il mondo racconta i processi che si celebrano nei tribunali senza alcun «contraddittorio»: semplicemente elencando i fatti, dopo aver verificato che siano veri. Il «contraddittorio» riguarda le tribune politiche, non l’informazione. Non ho mai sentito proteste quando giornali, tv, film e fiction raccontano l’arresto di Provenzano o di Riina, in assenza di Provenzano e di Riina. A meno che non mi si venga a dire che Provenzano e Riina non hanno diritto al contraddittorio perché sono imputati di serie B. Nel qual caso, sono costretto a ricordare che, in base alla Costituzione ancora vigente, «tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge».

Marco Travaglio

martedì, febbraio 05, 2008

L' ALTRA CASTA - Gli alberghi dei santi alla crociata dell’ICI

Da "L'altra Casta" di Curzio Maltese.

La chiesa non paga l’imposta sui fabbricati appellandosi a una legge del ‘92 ma la Cassazione la giudica illegittima e l’UE ha messo l’Italia sotto processo.





Una terrazza da sogno sul cuore della Roma barocca, sormontata dal campanile di Santa Brigida, con vista sull’ambasciata francese e perfino sull’attico di Cesare Previti. È soltanto uno dei vanti dell’albergo delle Brigidine in piazza Farnese, "magnifico palazzo del ‘400" si legge nel depliant dell’hotel, classificato con cinque stelle nei siti turistici, caldamente consigliato nei blog dei visitatori, soprattutto dagli americani, per il buon rapporto qualità prezzo e l’accoglienza delle suore.
"Parlano tutte l’inglese e possono procurare lasciapassare gratis per le udienze del Papa" scrive un’ entusiasta ospite da Singapore sul portale Trip Advisor ("leggi le opinioni e confronta i prezzi"). L’unico problema, avvertono, è trovare posto. Sorto intorno alla chiesa di Santa Brigida, quasi sempre vuota, l’albergo è invece sempre pieno.
Prenotarsi però non è difficile. Basta inviare una email a www.isfitutireligiosi.org, il portale che raccoglie un migliaio di case albergo cattoliche in Italia, con il progetto di pubblicarle tutte nei prossimi mesi e "raggiungere accordi con i grandi tour operator stranieri per il lancio sul mercato internazionale". Oppure si può cliccare direttamente su brigidine.org, il sito ufficiale dell’ordine religioso fondato da Santa Brigida di Svezia, straordinaria figura di mistica e madre di otto figli, fra i quali un’altra santa, Caterina. Una notizia che in realtà dall’homepage delle brigidine non si ottiene. La biografia della fondatrice occupa solo poche righe. In compenso si trovano minuziosi dettagli sulla catena di alberghi ("case religiose") gestiti dalle brigidine in 19 paesi, una specie di Relais & Chateux di gran fascino, per esempio il magnifico chiostro dell’Avana Vecchia, inaugurato da Fidel Castro in persona. Il prezzo di una camera a piazza Farnese è di 120 euro per la singola, 190 per la doppia, compresa colazione, maggiorato del tre per cento se si paga con carta di credito.
La Casa di Santa Brigida, quattromila metri nella zona più cara di Roma, più lo sterminato terrazzo, ha un valore di mercato di circa 60 milioni di euro ma è iscritto al catasto romano nella categoria "convitti". E non paga una lira di lei.Ogni anno i comuni italiani perdono secondo gli studi dell’Alici ("basati su dati catastali lontani dal valore di mercato reale") oltre 400 milioni di euro a causa di un’esenzione fiscale illegittima e contraria alle norme europee sulla concorrenza. A questa stima vanno aggiunti gli immobili considerati unilateralmente esenti da sempre e mai dichiarati ai comuni, per giungere ad un mancato gettito complessivo valutato vicino al miliardo di euro annuali.
Sarebbe più esatto dire che la perdita è per i cittadini italiani, perché poi i comuni i soldi mancanti li prendono dalle solite tasche. L’Avvenire, organo della Cei, ha scritto che bisogna smetterla di parlare di privilegio poiché esiste una legge di esenzione fin dal 1992. ".Un regime che non aveva mai dato problemi fino al 2004" conclude. È vero. Ma ha dimenticato di aggiungere che il "problema" insorto è la correzione della Corte di Cassazione. Un problema non da poco in uno stato di diritto. Al quale si è aggiunto quest’ anno un altro problemino. anticipato da "Repubblica", l’inchiesta della commissione europea sull’intero settore dei lavori fiscali alla chiesa cattolica italiana, nell’ipotesi di "aiuti di Stato" mascherati. Con gran scandalo di alcune lobby parlamentari che hanno invocato la mano del papa contro Bruxelles.
Piccola storia della controversia. La legge del ‘92 sulle esenzioni dall’ICI è stata giudicata illegittima dalla Cassazione, che nel 2004 l’ha così corretta: sono esenti dall’Ici soltanto gli immobili che "non svolgono anche attività commerciale". La sentenza come la precedente esenzione, si applicava a tutti i soggetti interessati. Oltre alle proprietà ecclesiastiche, non solo cattoliche, anche alle Onlus, ai sindacati, ai partiti, alle associazioni sportive e cosi via.Ma l’unica reazione furibonda è arrivata dalla Cei: "Una sentenza folle". Perché? Forse perché è l’unico fra i soggetti interessati a possedere un impero commerciale: alberghi, ristoranti, cinema, teatri,librerie, negozi. "Il fenomeno ha avuto un’impennata prima del Giubileo" spiegano i tecnici dell’Anci "ma negli ultimi dieci anni l’espansione commerciale degli enti religiosi è impressionante". Una parte della montagna di soldi pubblici (3500miliardi di lire) stanziati per il Giubileo del 2000, più quote consistenti dell’otto per mille sono finite in questi anni in ristrutturazioni immobiliari che hanno trasformato conventi, collegi e ostelli in moderne catene alberghiere.
Un po’ ovunque, come a piazza Farnese, le chiese si svuotano ma gli hotel religiosi si riempiono. Le ragioni non mancano: sono belli, ben gestiti, concorrenziali nei prezzi e possono far leva su una capillare rete di propaganda. La chiesa cattolica è oggi uno dei più potenti broker nel turismo mondiale, primo settore per crescita dell’economia. Si calcola che quaranta milioni di presenze all’anno per l’Italia e verso i luoghi di culto (Lourdes, Fatima, Czestochowa, Medjugorije…). In cima alla piramide organizzative, si trova la ORP (Opera Romana Pellegrinaggi), alle dipendenza del Vicariato di Roma e quindi della Santa Sede. L’attività è in larga misura esentasse, lCI a parte.
Sì capisce che la Cei di Ruini si sia mossa contro la "folle sentenza",fonte di danni incalcolabili". Fino a ottenere dal governo Berlusconi il colpo di spugna per decreto. Un decreto che rovesciava la Cassazione e ripristinava l’esenzione totale dall’ICI per le proprietà ecclesiastiche, "a prescindere" (alla Totò) da ogni eventuale uso commerciale. E’ l’autunno 2005 e Berlusconi anticipa nei fatti alla Cei l’abolizione dell’Ici che sei mesi più tardi, all’ultimo minuto di campagna elettorale, avrebbe soltanto promesso a tutti gli altri italiani.
Fu un’esplosione di gioia—si legge nel sito della Cei — "cin, cin", brindisi, congratulazioni, gratitudine per tutti coloro che si erano adoperati per l’approvazione di tali norme".
Passate le elezioni, alla nuova maggioranza si è riproposto il nodo dell’illegittimità della norma, sollecitata dai rilievi della Commissione Europea. E il governo Prodi l’ha risolto nel più ipocrita dei modi. Con un cavillo inserito nei decreti Bersani, vengono esentati dall’Ici gli immobili che abbiano uso "non esclusivamente commerciale". In pratica, secondo l’Anci, significa che "il 90 - 95 per cento delle proprietà ecclesiastiche continua a non pagare". In termini giuridici il "non esclusivamente commerciale" rappresenta un non senso, una barzelletta sul genere di quella famosa della donna incinta "ma appena un poco". Nel secolare diritto civile e tributario italiano il "non esclusivamente" non era mai apparso, un’attività è commerciale o non commerciale. Il resto è storia recente. Parte la richiesta di chiarimenti da Bruxelles il governo da un lato risponde che la "norma è chiarissima"e dall’altro istituisce una commissione per studiarne le ambiguità, voluta quasi soltanto dal ministro per l’Economia Tommaso Padoa Schioppa, europeista convinto. La relazione sarà consegnata fra pochi giorni, ma circola qualche riservata anticipazione. Il presidente Francesco Tesauro, dall’alto della sua competenza giuridica, difficilmente potrà avvalorare l’assurdità del "non esclusivamente" e quindi sarà inevitabile cambiare la norma.
"Qui nessuno, per intenderci, pretendete dal bar o dal cinema dell’oratorio" commenta il presidente dell’Anci. il sindaco d Firenze Lorenzo Domenici. Ma dagli esercizi commerciali aperti al pubblico, in concorrenza con altri, da quelli si. Abbiamo dato piena autonomia ai singoli comuni per trovare accordi con le cune locali e compilare elenchi attendibili". Ma una leale collaborazione nel separare il grano dal loglio, i templi dai mercati, insomma il culto dal commercio, da parte delle curie non c’è mai stata.
Nel marzo scorso, per far fronte all’espansione del settore, la Cei ha organizzato a Roma un mega convegno intitolato"Case per ferie, segno e luogo di speranza". Gli atti e gli interventi dei relatori, scaricabili dal sito ufficiale della Cei, compongono di fatto un eccellente corso di formazione professionale per operatori turistici, tenuto da esperti del ramo e commercialisti non solo molto preparati ma anche dotati di una capacità divulgativa singolare per la categoria. Una visita al sito è largamente consigliabile a qualsiasi laico titolare di un alberghi, pensioni, bar, ristoranti. Nelle molte e lunghe relazioni, fitte di norme civilistico-fiscali, compare anche l’aspetto spirituale, alla voce swiftiana "Qualche modesto suggerimento per difendervi nel prossimo futuro da accertamenti ICI (anche retroattivi)". Si ricorda allora che "A) l’ ospite deve riconoscere la piena condivisione degli ideali e delle regole di condotta della religione cristiana; B) l’ospite deve impegnarsi a rispettare gli orari di entrata e di uscita; C) la casa per ferie metta a disposizione degli ospiti la propria struttura e personale religioso per un’assistenza religiosa oltre l’annessa cappella" e così via. A parte che a piazza Farnese ci hanno dato subito le chiavi per entrare e uscire quando volevamo, è la Cei stessa a ridurre la vocazione spirituale e dunque "non commerciale" degli alberghi religiosi a un espediente da commercialisti furbi per evitare gli odiati accertamenti. Eppure sono passati duemila anni da quando Gesù rispose ai farisei, il clero dell’ epoca, "date a Cesare quel che è di Cesare". Per finire, una precisazione penosa ma necessaria.
Da settimane l’informazione cattolica pubblica le tabelle degli stipendi dei preti, bassi come quelli degli operai, per "sbugiardare un’inchiesta fondata sulla menzogna". Ora. i salari dei preti non sono mai stati né saranno oggetto di questa inchiesta. Si può anzi essere d’accordo con gli organi della Cei nel sostenere che i sacerdoti sono una categoria sottopagata rispetto all’impegno profuso nella società. Per non dire delle suore, alle quali la Cei non versa un euro. Le sorelle brigidine di piazza Farnese, per esempio, si alzano all’alba e lavorano dodici ore al giorno, offrendo agli ospiti una cortesia e una dedizione che non s’imparano alla scuola alberghiera, eppure non avranno mai né uno stipendio né la pensione, a differenza dei preti. Ed è un’altra fonte d’imbarazzo laico dover contribuire con le tasse a un sistema tanto discriminatorio. La questione non sono i 350 milioni per gli stipendi prelevati con l’otto per mille, inventato per questo. Ma gli altri quattro miliardi che vanno altrove, in parte certo alle missioni di carità, in parte più cospicua dentro una macchina di potere che influenza e condiziona l’economia, la politica, la vita democratica e a volte l’esercizio dei diritti costituzionali, fra i quali la libertà di stampa.

lunedì, febbraio 04, 2008

L'Altra Casta - Prima Parte

L’inchiesta de "la Repubblica" sull’ALTRA CASTA di Curzio Maltese.

L'otto per mille, le scuole, gli ospedali, gli insegnanti di religione e i grandi eventi. Ogni anno, dallo Stato, arrivano alle strutture ecclesiastiche circa 4 miliardi di euro. I conti della Chiesa. Ecco quanto ci costadi CURZIO MALTESE (Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)


"Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati". Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l'arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus, dall'arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate. Nel "ventennio Ruini", segretario dall'86 e presidente dal '91, la Cei si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all'interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.
Le ragioni dell'ascesa di Ruini sono legate all'intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un'altra chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990, quando entra a regime il prelievo diretto sull'Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all'anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l'ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.
Dall'otto per mille, la voce più nota, parte l'inchiesta di Repubblica sul costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all'anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L'equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all'anno".
Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali, sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai parlamentari europei all'ultimo consigliere di comunità montane, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio.
Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali.
Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all'anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell'otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell'ora di religione ("Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire", nell'opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c'è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all'ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell'ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un'inchiesta dell'Unione Europea per "aiuti di Stato". L'elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 ai 700 milioni il mancato incasso per l'Ici (stime "non di mercato" dell'associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l'elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l'Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi all'anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all'anno, più qualche decina di milioni.
La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della democrazia", magari con migliori risultati.
Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse non lo sanno. Il meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef, studiato a metà anni Ottanta da un fiscalista all'epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell'84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.
Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell'otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d'accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l'impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma "quanto" veri?
Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull'otto per mille. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all'estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all'autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all'interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l'altro paradosso: se al "voto" dell'otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.
Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell'otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell'Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L'altra faccia dell'otto per mille", Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell'otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?". "E infatti - conclude l'autore - i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere...".
A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa padrona", rifiutato in blocco dall'editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all'uso "ideologico" dell'otto per mille non è affatto nell'universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: "I vescovi non parlano più, aspettano l'input dai vertici... Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato".
Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: "Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono".
La Chiesa di vent'anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall'egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall'universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l'antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l'impegno di don Italo Calabrò contro la 'ndrangheta.
Dopo vent'anni di "cura Ruini" la Chiesa all'apparenza scoppia di salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l'agenda dei media e influisce sull'intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent'anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione.
Il clero è vittima dell'illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d'inverarsi la terribile profezia lanciata trent'anni fa da un teologo progressista:
"La Chiesa sta divenendo per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo". Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger. (28 settembre 2007).

giovedì, dicembre 13, 2007

Quell'agenda rossa di Paolo Borsellino...

Luci ed ombre sulla strage di via D'Amelio
di Chicco Alfano da ammazzatecitutti.org

Ho appena finito di leggere il meraviglioso libro di Peppino Lo Bianco sulla agenda rossa di Paolo Borsellino misteriosamente scomparsa dalla borsa del giudice assassinato 15 anni fà.
Un libro che racconta gli ultimi 58 giorni di vita di Borsellino, dal 23 maggio al fatidico 19 luglio.
Appena finito il libro decido di fare un controllo sulle agenzie di stampa e mi accorgo di un dispaccio sulla trasmissione da parte della Dda di Palermo a quella di Caltanissetta, competente territorialmente sulla procura di Palermo di un nuovo fascicolo riguardante le indagini sulla morte di Paolo Borsellino.
Un fascicolo pieno di novità?Non credo proprio anzi credo che siano fatti stranoti a tutti, come la presenza in via D'Amelio di un poliziotto trasferito alcuni mesi prima alla questura di Firenze perchè pare abbia "venduto" i suoi colleghi ad un gruppo di spacciatori, o alla presenza dell'allora capitano dell'Arma dei Carabinieri Arcangioli, visto allontanarsi dal luogo della strage con in mano la borsa di Paolo Borsellino appena estratta dai rottami della Croma blindata sulla quale sedeva qualche istante prima dell'esplosione il povero giudice.
Per quanto riguarda il telecomando a distanza di 15 anni non si sa ancora chi abbia effettivamente azionato il pulsante e addirittura non si è più sicuri se sia stata una autobomba o forse un fusto di latta carico di tritolo lasciato li sulla strada senza che nessuno se ne accorgesse.
Del resto lo Stato non si è mai volutamente accorto che le misure di protezione erano decisamente inadeguate nei confronti di quel giudice che all'indomani della morte di Giovanni Falcone era l'obbiettivo numero uno di quella maledetta stagione stragista iniziata forse perchè qualcuno si era fatto carico di trattare con la mafia per conto dello stato.
Misure di protezione inadeguate visto che gli stessi uomini della scorta, pare che abbiano scritto ai loro superiori per richiedere misure di vigilanza in via D'amelio.
Altro episodio che in questi giorni impazza sui quotidiani è l'incontro, negato, tra Paolo Borsellino e il neo ministro dell' Interno appena insediato Nicola Mancino.su questo episodio vi sono due testimonianze chiave, quelle del procuratore aggiunto di Palermo di allora, il dott. Aliquò e il pentito Gaspare Mutolo.
Cosa c'entrano questi due personaggi l'uno diverso dall'altro?Semplice sia Borsellino che Aliquò si trovavano alle ore 17.40 del 1 luglio 1992 nei locali della DIA di Roma ad interrogare Gaspare Mutolo il quale stava iniziando a verbalizzare la sua collaborazione e stava per mettere nero su bianco le presunte collusioni tra il dott. Signorino(PM della procura di Palermo suicidatosi in seguito alle dichiarazioni del Mutolo), quelle di Bruno Contrada ex numero tre del SISDE condannato in via definitiva a dieci anni e alcune cosche mafiose palermitane.
Alle 17.40 in punto il telefono cellulare del dott. Borsellino squilla, risponde, dopo pochi secondi chiude la telefonata e alzandosi dalla sedia comunica sia al Mutolo che al dott. Aliquò che il Ministro Mancino lo ha convocato presso il Viminale e lo stesso dice che si deve chiudere il verbale per circa 30 o 40 minuti.Il dott. Aliquò decide di accompagnare il Borsellino e dichiarerà:" ho accompagnato Paolo fino alla soglia dell'ufficio del Ministro Mancino".
Dopo circa un'ora i due rientrano nei locali della Dia per riaprire il verbale del Mutolo, ma quest'ultimo si accorge del troppo nervosismo del magistrato e gli chiede cosa fosse successo.
Il Mutolo successivamente dichiarerà:"quando il dott. Borsellino è rientrato era talmente nervoso che si accendeva una sigaretta dopo l'altra e alla mia domanda su cosa fosse successo lui mi rispose che era stato dal Ministro Mancino e che appena entrato nella sua stanza si accorse che oltre la presenza del ministro, vi erano il capo della polizia dott. Parisi e il dott. Bruno Contrada".
Perchè il Ministro Mancino ha sempre negato questa circostanza? Cosa hanno chiesto i tre al dott. Borsellino? I soliti misteri italiani che hanno sempre caratterizzato la storia del nostro paese.Per quanto riguarda il telecomando della strage dovremo aspettare ancora anni per capire da dove e arrivato?E' forse stata la famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto a consegnarlo ai palermitani come nel caso della strage di Capaci?E qui potrebbe rientrare benissimo il passagio del nuovo fascicolo in cui si parla dei servizi segreti deviati.Ricordiamo che a Barcellona vive tutt'oggi libero l'avvocato Saro Cattafi, l'uomo che negli ultimi 20 anni è stato al centro di tutte le indagini italiane sul traffico internazionale di armi e alla procura di Caltanissetta basta soltanto rispolverare il fascicolo sull' omicidio del giudice Falcone per capire chi è, o basta ascoltare la "visionaria", come l'hanno descritta tutti, Sonia Alfano.
Chiedete a lei che forse qualche risposta su Cattafi e su come e da chi è stato consegnato il telecomando per Capaci la saprà dare.
Questa volta decido di firmarmi con nome e cognome.

Chicco Alfano

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